Søren Kierkegaard è considerato uno dei più grandi filosofi della storia della filosofia. Viene riconosciuto come uno dei fondatori dell’esistenzialismo contemporaneo.
Indice della guida:
Søren Kierkegaard riassunto
La vita e le vicende chiave
Il filosofo danese Søren Aabye Kierkegaard, considerato il padre dell’esistenzialismo contemporaneo, nacque a Copenaghen il giorno 5 maggio 1813. Il padre Michael Pedersen fu un ricco commerciante che non aveva avuto figli dalla prima moglie; la seconda moglie, Ane Lund, concepì invece sette figli, dei quali Søren fu l’ultimo. Il giovane venne indirizzato verso l’esperienza della comunità religiosa pietista (forma di religiosità protestante sorta in polemica con il luteranesimo istituzionale per opera di Philipp Jacob Spene): l’educazione fu severa, improntata al pessimismo ed al sentimento del peccato, e caratterizzata da una valutazione negativa della cristianità protestantica ufficiale della Danimarca del tempo.
Cinque dei suoi fratelli morirono quando il futuro filosofo era appena ventenne. La tragedia della morte dei fratelli e l’educazione ricevuta accentuarono per tutta la vita in Kierkegaard la malinconia e l’introspezione, nonché i frequenti sensi di colpa dell’Autore, il quale visse i momenti più significativi della sua vita attanagliato da una “coscienza angosciata”. Kierkegaard fu, inoltre, sempre cagionevole di salute.
Kierkegaard iniziò nel 1830 gli studi universitari di teologia, laureandosi dopo undici anni. La prospettiva, poi non realizzata, era quella di diventare pastore protestante. Durante il periodo universitario partecipò a un movimento religioso e riformistico, professando idee social-cristiane: nel giovane Kierkegaard vi era più la preoccupazione di una riforma ecclesiale pietistica che avesse un riflesso anche nei rapporti sociali della società civile, che non la preoccupazione di sviluppare una ricerca teologica autonoma.
Nella sua tesi di laurea (pubblicata nel 1841), “Sul concetto dell’ironia in costante riferimento a Socrate” (poi pubblicata), Kierkegaard prese posizione contro il romanticismo estetico, evasivo, estraniato, come quello di Friedrich Schlegel. L’ironia romantica era per Kierkegaard fonte di isolamento. Contro il classico romanticismo tedesco e danese, egli oppose Goethe e Shakespeare, dove l’ironia è solo un “momento”, non una condizione di vita.
Nel 1840, dopo aver sostenuto un esame di teologia che lo abilitava alla carriera ecclesiastica, fece un viaggio nello Jutland per rimettersi da una grave forma di esaurimento nervoso; nello stesso anno, il giovane Søren decise improvvisamente di fidanzarsi con la diciottenne Regina Olsen, ma dopo circa un anno egli decise di troncare il rapporto. Regina era pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fece il possibile per rompere il fidanzamento, in modo che sarebbe caduta su di lui tutta la colpa della rottura del fidanzamento stesso. Alla fine Kierkegaard terminò la relazione con una “coscienza angosciata” di fondo e con malinconia, trascinando gli strascichi di questo evento per il resto della sua vita.
Subito dopo aver rotto con Regina compì un viaggio a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling, ma ne rimane profondamente deluso. Nel marzo del 1842 tornò a Copenaghen e diede inizio a quella che sarà una vasta produzione letteraria.
Nel 1844, Kierkegaard scrisse sul suo Diario di una “oscura colpa del padre”, un evento non meglio specificato riguardante il suo genitore.
Il padre di Søren, Michael Kierkegaard, uomo stimato, pio e austero, comunicò una volta, in stato di ebrezza, ciò che per il Filosofo costituirà un “gran terremoto” per la vita. Michael era di povera famiglia, e da bambino faceva il pastore. Avvilito dal fatto di dover badare alle pecore, pare che abbia avuto un momento di sconforto e si sia dato alla bestemmia, ad ogni sorta di imprecazione contro la divinità per la sua sorte miserabile. Poco tempo dopo iniziò la fortuna di Michael, il quale, passato in città, si diede al commercio e diventò un ricchissimo commerciante, tanto che, giunto al culmine della sua ricchezza, potè vivere di rendita, lasciando poi una rendita molto cospicua anche al figlio, che quindi non ebbe il bisogno di lavorare. Tuttavia, Michael Kierkegaard trascorse la parte finale della sua esistenza a rodersi la coscienza, convinto che una maledizione divina lo dovesse raggiungere perché gran peccatore (l’evento peccaminoso forse legato alle imprecazioni descritte sopra o forse ad un grave errore commesso con/nei confronti della seconda moglie Betsabea). Ad ogni modo, il malessere generato da questo evento, investì totalmente anche la vita di Søren, il quale vide le conseguenze al “terremoto paterno” come una sorta di “castigo divino”, il quale castigo sarebbe dovuto gravare “sulla famiglia intera” con la conseguenza che la famiglia stessa “doveva scomparire, rasa al suolo dalla divina onnipotenza”.
Nel 1843 Kierkegaard pubblicò “Aut-Aut” (o “Enten-Eller”), la sua opera più significativa, che fu anche quella che gli diede maggior successo. Enten-Eller, diviso in due parti, conteneva la sintesi del pensiero estetico, religioso e fenomenologico del giovane Kierkegaard. Vi erano inclusi il “Diario del seduttore” (scritto per respingere Regina e nel quale compare il “Don Giovanni”), i “Diapsalmata” (una serie di aforismi autobiografici), “Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno”, in cui Kierkegaard contestava il valore dell’associazionismo della sua epoca, anteponendogli quello dell’individualità isolata, tormentata, che si sacrifica per il bene dell’ideale. Nonostante il successo editoriale dell’opera, risultavano del tutto vani i tentativi di coinvolgerlo in una collaborazione culturale, filosofica (in riferimento soprattutto all’estetica), da parte dei vari circoli, club e riviste di Copenaghen. Di fatto con la pubblicazione di quest’opera Kierkegaard usciva dal mondo della cultura e dell’impegno sociale, rifiutando per sempre anche la carriera ecclesiastica.
Nel 1843 venne poi pubblicato “Timore e tremore” (in danese “Frygt og Bæven”), un saggio sulla figura di Abramo con cui l’Autore anteponeva al dubbio della filosofia moderna (cartesiana) la fede angosciata nell’Assoluto di un uomo (biblico) il quale “non può mettersi in comunicazione con nessuno, sapendo di non poter essere capito”. Kierkegaard si servì della figura di Abramo per giustificare la sua nuova posizione sociale: l’individualismo religioso. Come Abramo, che esteriormente appariva un assassino, mentre interiormente era un uomo di fede, così Kierkegaard sapeva di apparire alla cittadinanza come una persona stravagante, anomala, a tratti inaffidabile.
Nel 1844 uscì “Il concetto dell’angoscia“: Kierkegaard ne aveva già parlato trattando le figure di Antigone, Agamennone, Jefte e soprattutto Abramo. L’opera consentì a Kierkegaard di dimostrare che l’angoscia conseguente alla rottura con il mondo sociale “è uno stato d’animo inevitabile”, come fu, in un certo senso, “inevitabile” il peccato originale per Adamo.
Nello stesso anno usciva “Briciole di filosofia”, opera in cui l’Autore trasportò sul piano filosofico le riflessioni maturate sui piani psicologico e religioso. Kierkegaard rifiutava il concetto di “divenire storico” in quanto la storia aveva già (e innumerevoli volte) tradito Cristo. Con questo saggio proseguiva la critica, iniziata con “Timore e tremore”, della Chiesa protestante danese, anche se questa polemica per il momento passava attraverso la critica dell’hegelismo.
Kierkegaard non accettò mai di definirsi “filosofo”: anche quando scriveva di filosofia, Egli preferiva definirsi come “scrittore religioso” o “edificante”.
Alle Briciole seguì nel 1846 la monumentale “Postilla conclusiva non scientifica”. A partire da questo volume (che secondo Kierkegaard doveva essere un’antitesi alla Logica di Hegel), Kierkegaard constatava il fatto di non avere più un vero e proprio interlocutore. Il Filosofo riuscì a vendere solo 50 copie della Postilla, ma l’intenzione di Kierkegaard era proprio quella di concludere la sua attività di scrittore. Venne indotto a terminare l’attività anche dalla polemica scoppiata con la rivista “Il corsaro”, che lo avrebbe denigrato per diversi mesi, facendo così facile colpo sul pubblico (il giornale venne poi chiuso dal governo e il direttore espulso dal paese per “indegnità morale”). Ad ogni modo, nella Postilla il disprezzo per la socialità raggiunse forme di particolare conservatorismo filo-monarchico, dalla quali apparve una avversità di Kierkegaard nei confronti delle idee liberali, democratiche e socialiste.
Oltre a questi eventi degni di nota, risulta importante sottolineare in questa sede che Kierkegaard possedeva un temperamento scontroso, poco socievole, vivendo un’esistenza appartata. Gli unici fatti “movimentati e pubblici” della sua vita furono gli attacchi mossi dal giornale satirico “Il corsaro” (Kierkegaard appare più volte ritratto in caricature maligne), e la polemica contro il vescovo luterano Mynster (morto nel 1854) e contro l’opportunismo e il conformismo religioso che Kierkegaard avrebbe condotto nell’ultimo anno della sua vita, in una serie di articoli pubblicati nel periodico “Il momento”: Kierkegaard accusava la Chiesa danese di essere mondana e di aver tradito gli insegnamenti originari di Cristo (Scrive Kierkegaard sul vescovo Mynster: “non può essere celebrato come testimonio della verità chi ha avuto la vita in godimento, al sicuro dalle sofferenze, dalla lotta dell’interiorità, dal timore e tremore, dagli scrupoli, dalle angustie di anima e dalle pene di spirito […]. Un vero testimonio della verità è un uomo che in povertà, in umiltà e abbassamento, è misconosciuto, odiato, aborrito, disprezzato, schernito. Che ha la persecuzione per suo pane quotidiano, ed è trattato come un rifiuto. È stata forse così la vita del vescovo Mynster?”).
Dopo un’intera vita passata quasi esclusivamente nella sua città, Soren Kierkegaard morì il giorno 11 novembre 1855, forse a causa dei traumi riportati in seguito ad una caduta (o forse a causa di una paralisi spinale progressiva) e dopo decine di giorni di degenza in ospedale. In punto di morte, il Filosofo rifiutò la benedizione del pastore luterano.
Il valore del singolo e le critiche ad Hegel
In contrapposizione alla teoria hegeliana, Kierkegaard afferma che il singolo essere umano sia “più alto del genere” e debba essere difeso con tutta la forza, poiché “ogni singolo è creato a immagine di Dio”. Queste ed altre affermazioni, faranno di Kierkegaard uno dei primi grandi difensori della “singolarità” e uno smascheratore della “menzogna contenuta nei grandi sistemi filosofici che […] si interessano dei concetti e non dell’esistenza”. Per Kierkegaard, Hegel è quindi “uno spirito sistematico che crede di riuscire a dire tutto ed è persuaso che l’incomprensibile sia qualcosa di falso e secondario” e l’hegelismo non è nient’altro che “la più ripugnante di tutte le forme di libertinaggio”. Hegel pretende di “guardare le cose con gli occhi di Dio, di sapere tutto”, ma “cade nel ridicolo” perché il suo sistema si dimentica del Singolo. Il Singolo è “la categoria attraverso la quale devono passare” (dal punto di vista religioso) “il tempo, la storia, l’umanità”.
Il compito affrontato da Kierkegaard è dunque il passaggio dal campo della “verità oggettiva” a quello della “verità soggettiva”, dove per soggettivo non si intende affatto un “attributo relativistico”, bensì l’indicazione di un’appropriazione della verità in termini esistenziali, la “verità per me” o il “come” della verità (il come si dà). Kierkegaard definisce la ricerca (in ultima analisi, ricerca religiosa) come una “passione del pensiero”: passione perché l’uomo è intimamente attraversato dal riferimento a un assoluto, da cui è anche continuamente tormentato perché mai riesce a coglierlo in se stesso. Inoltre nella prospettiva della religiosità cristiana l’assoluto diventa “contraddizione”: l’eterno, infatti, contro la sua natura, si fa del tutto identico con una determinata figura storica, quella dell’uomo di Nazareth, Gesù.
La solitudine, la possibilità e l’angoscia
In questa ottica però, il singolo essere umano è solo ed è pervaso da una costante libertà che si tramuta in possibilità di scelta. L’essere liberi e il poter scegliere nella (e della) propria vita, generano uno stato di angoscia; l’angoscia (la quale appartiene a tutti gli uomini singolarmente) assume un ruolo centrale perché essa è la nuda e cruda “possibilità della libertà” o “il puro sentimento del possibile”. Se si è infatti liberi, come Dio ci ha creato, si è, per il Filosofo, in un perenne stato di “possibilità” e di irreversibilità delle proprie scelte: ogni scelta che si compie nella vita è definitiva e non può più essere ri-scelta una seconda volta. Perfino azioni comuni e semplici come andare a comprare da mangiare richiedono una scelta e una conseguente irreversibilità della scelta: se scelgo di comprare il pane, oggi non potrò comprare il riso, se scelgo di uscire a fare una passeggiata in montagna non potrò andare al mare etc. etc.
L’angoscia è il sentimento che si prova costantemente, nel divertimento e nel chiasso, in una stanza deserta o al lavoro, di giorno e di notte e se “male accolta” o addirittura “fraintesa” può portare a gesti terribili come il suicidio. Ma essa, in realtà, va accolta (e bisogna imparare a farlo) e va fatta “entrare nell’animo” per lasciare che “essa lo perquisisca” e permetterle di scacciare “tutti i pensieri finiti e gretti”.
“Aut-Aut” e “Timore e tremore”. I tre stadi dell’esistenza
Nella vita dell’uomo, nella singolarità del suo esistere in quanto esseri unici e irripetibili, l’essere umano è, quindi, sempre immerso nell’esigenza di una scelta. Nell’opera “Aut-Aut”, Kierkegaard raccoglie (sotto pseudonimo) una serie di scritti che presentano due “modi di vivere”, o stadi dell’esistenza: la vita estetica e la vita etica. Già il titolo dell’opera si può notare come questi due stadi non siano due gradi di un unico sviluppo armonico ma siano separati tra di loro in una sorta di “abisso”, un vero e proprio “salto”. Difatti, ogni stadio forma una vita a sé, con le sue opposizioni interne e le sue caratteristiche. Ogni stadio, infine, si presenta all’uomo come un’alternativa di vita che esclude le altre.
Se si sceglie di vivere una vita da esteta – l’esteta è rappresentato dalla figura del Don Giovanni (in “Diario di un settore”) – si predilige la vita “poetica”, nutrendosi di immaginazione e di riflessione al tempo stesso. Il Don Giovanni vive in un mondo luminoso ed esclude tutto ciò che è banale, insignificante e meschino, egli vive in uno stato di permanente ebbrezza intellettuale. La vita dell’esteta non tollera la ripetizione (della vita quotidiana). Ma questa vita che sembra all’apparenza “perfetta” è in realtà l’essere della “perdita di se” e il rincorrere sempre nuove esperienze, porta, a lungo andare, alla disperazione. Chiunque vive esteticamente è dunque disperato, sia che se ne renda conto sia che non se ne renda conto, e vive nascondendo intimamente la disperazione stessa.
È proprio abbandonandosi completamente alla disperazione (la “molla” che fa fare lo scatto a questo stadio) che si giunge allo stadio etico (stadio rappresentato dalla figura del “marito”). Scegliendo la disperazione, facendosi completamente carico della disperazione, volendo fino in fondo la disperazione, l’essere umano fa nascere la vita etica, la quale implica stabilità e continuità: vivere eticamente non significa solo farsi una famiglia e pagare le tasse, significa altresì riaffermare se stessi nel tempo, scegliere di vivere nel dovere ed essere fedeli a se stessi nella società. L’uomo etico (il marito, tramite la scelta del matrimonio) si sottomette volontariamente alle regole della famiglia e della società, assumendosi il peso della responsabilità sociale e soprattutto della responsabilità personale (e singolare) di essere libero. Si tratta di una scelta assoluta, poiché non è una scelta di un comportamento “finito” ma è il farsi completamente carico della propria libertà, è “la scelta del poter scegliere”. E proprio a causa e in virtù di questa scelta, l’essere umano non può rinunciare a nulla della propria storia personale, neanche agli aspetti più dolorosi e crudeli. Nel riconoscere questi aspetti più dolorosi, egli si pente e il pentimento costituisce “l’ultima parola” della vita etica.
Il pentimento del singolo coinvolge così tanto l’essere umano che perdura finché l’essere umano stesso non si ritrova in Dio. Ecco allora il terzo stadio, lo stadio religioso.
Così come c’è un divario tra vita estetica e vita etica, allo stesso modo e in misura ancora più profonda, vi è un abisso tra lo stadio etico e quello religioso. Kierkegaard analizza questa opposizione nell’opera “Timore e tremore” (1843), dove la figura simbolo è il personaggio biblico di Abramo. Vissuto fino a settant’anni nel rispetto della legge morale, Abramo riceve da Dio l’ordine di uccidere il figlio Isacco, infrangendo così in un istante la legge per la quale egli è vissuto una vita intera. Il comando divino contrasta in toto con la legge morale e con gli affetti naturali; in parole povere, l’affermazione del principio religioso sospende interamente il principio morale e tra i due principi non c’è conciliazione.
La fede, lo scandalo, il paradosso e la contraddizione
L’uomo di fede sceglie dunque di seguire i comandi divini anche a costo di infrangere le norme morali contemporanee e sceglie di giungere così ad una rottura con gli altri uomini. Questo poiché la fede è un rapporto privato tra uomo e Dio, un rapporto assoluto del singolo con l’Assoluto. La fede è un luogo dove “regna la solitudine e non si odono voci umane”. Da tutto ciò deriva il carattere incerto e rischioso della vita di stampo religioso (“Come può sapere di essere l’eletto, colui al quale Dio ha affidato un compito talmente eccezionale da esigere e giustificare la sospensione dell’etica?”). La fede è quindi anche scandalo: da una parte perfino Cristo soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio, dall’altra parte, perfino il più potente (o il più misero) degli uomini esiste “come individuo singolo” di fronte a Dio e per di più egli è completamente isolato dagli altri e si trova nudo di fronte a Dio. “Nessuno può mettersi al nostro posto di fronte a Dio”. Ogni uomo, difatti, è disperato, eccetto quando egli si “guarda nel profondo” e si immerge nella potenza e nella grandezza di Dio.
In questa condizione, l’uomo è posto di fronte ad un bivio: credere o non credere. Ma da questo bivio emerge nettamente il paradosso della fede: se è il singolo uomo a dover scegliere, perché alcuni uomini hanno fede e altri no? Perché la fede sembra derivare da Dio come una sorta di predestinazione? Questa è per Kierkegaard la contraddizione inesplicabile che lo tormenterà fino all’ultimo. Questa contraddizione riporta in primo piano il senso della libertà del singolo essere umano.