Socrate è considerato uno dei più grandi filosofi della storia della filosofia. Viene riconosciuto come il fondatore della maieutica, come un anticipatore della filosofia morale e come un grandissimo rappresentante della filosofia greca antica.
Indice della guida:
- 1 Socrate riassunto
- 1.1 Introduzione alla vita
- 1.2 Il problema delle fonti
- 1.3 Perché Socrate non scrisse nulla?
- 1.4 Il metodo ironico maieutico e i momenti del dialogo socratico
- 1.5 Il “che cos’è” e le “definizioni”
- 1.6 L’uomo e l’anima secondo Socrate
- 1.7 Libertà, piacere, utile e felicità
- 1.8 L’accusa di empietà, la teologia Socratica e il daimónion
Socrate riassunto
Introduzione alla vita
Socrate nasce ad Atene nel 470 a.C. da madre levatrice e padre scultore. Egli, probabilmente di origine aristocratica, trascorre quasi tutta la vita ad Atene, lasciando la città solo in rare occasioni (per andare in guerra). Sposato con Santippe (dal carattere scontroso della quale egli “imparò ad adattarsi a qualsiasi altro essere umano”), Socrate si dedica completamente alla filosofia, frequentando ogni genere di persona, dai popolani ai potenti. Sempre integerrimo nei suoi interventi politici, il Filosofo si inimica le fazioni che si contendono il potere ad Atene e nel 399 a.C. viene processato con l’accusa di empietà e di corruzione dei costumi dei giovani. Condannato a morte nello stesso anno, egli rifiuta ogni proposta di fuga per rimanere fedele alle leggi della città. Affronta il processo e la morte per avvelenamento (in Atene) parlando di filosofia con gli amici più cari.
Il problema delle fonti
Socrate non scrisse nulla. Se da un lato questa “mancanza” è una delle caratteristiche più straordinarie della filosofia di Socrate, dall’altro essa richiede un grande lavoro di interpretazione e di ricerca nel paniere delle fonti disponibili. Nella ricostruzione della vita di Socrate è necessario tenere ben presenti le testimonianze di Aristofane, Policrate, Senofonte, Platone, Aristotele e i socratici minori. Aristofane è la prima fonte in ordine cronologico su Socrate (in “Le nuvole”), questa fonte dona una caratterizzazione parodistica di Socrate, ma può tornare utile se interpretata “in controluce” per capire alcuni aspetti importanti del Filosofo. La seconda fonte in ordine cronologico è Platone, il quale fa di Socrate il protagonista di quasi tutti i suoi dialoghi, ma in questa fonte ci sono due problemi: Platone è sicuramente di parte nel descrivere il proprio maestro e negli scritti di Platone è a volte impossibile distinguere il pensiero di Socrate da quello d Platone. La terza fonte è Senofonte, il quale parla di Socrate nei “Memorabili”; questa fonte manca di sottolineare il rigore speculativo e alcuni aspetti fondamentali del pensiero socratico, come il metodo dialettico. Per completezza, nell’elenco delle fonti è necessario indicare infine Policrate, i socratici minori e Aristotele (non ancora nato nell’anno della morte di Socrate).
Perché Socrate non scrisse nulla?
La filosofia, per Socrate, è una costante ricerca e un incessante dialogo sui problemi dell’uomo (“una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”). Difatti nessun uomo detiene tutta la verità e non la possiederà mai, perché ciascun uomo è un essere finito e limitato. Socrate sostiene il valore maggiore delle dottrine non scritte e dell’oralità rispetto ai rischi e alla “cristallizzazione” del testo scritto. Un testo, inoltre, può essere interpretato male e può sminuire o banalizzare il pensiero dello scrittore. Socrate utilizza il dialogo come metodo privilegiato per indagare la verità.
Il metodo ironico maieutico e i momenti del dialogo socratico
Sapiente non è solo chi “impara a conoscere se stesso” (“Γνῶθι σεαυτόν” o Gnòthi seautòn o “Conosci te stesso” era una massima greca che voleva ammonire gli uomini a conoscere i propri limiti per non cadere negli eccessi e per non offendere la divinità pretendendo di essere come dei) ma è soprattutto chi sa di non sapere, poiché solo chi sa di non sapere vuole sapere veramente (da un lato questa confessione di ignoranza richiama costantemente i limiti della ricerca, dall’altro, essa è un continuo invito ad indagare). Solo chi sa di non sapere e vuole sapere sarà veramente aperto al dialogo per indagare la realtà. Se un animo non si dispone in queste condizioni nei confronti della conoscenza, non potrà mai svolgere un percorso saggio e retto. Essendo così importante l’anima, si capirà allora il ruolo del dialogo e del “metodo socratico” (il metodo di purificazione dell’anima).
Socrate svolge la sua arte in maniera assolutamente gratuita (e questo lo distingue dai sofisti tradizionali) e palesa la sua ignoranza ad ogni interlocutore che gli capita a tiro nella piazza di Atene. Nel confermarsi ignorante (celebre è l’episodio dell’oracolo di Delfi, il quale dice che Socrate è il più sapiente, appunto perché sa di essere completamente ignorante) il Filosofo attua un dialogo che risulta essere catartico, purificatore per il suo interlocutore.
L’ironia (eironéia significa “dissimulazione” in greco; è qui opportuno citare, per completezza, la differenza tra l’ironia semplice e quella complessa. L’ironia semplice si utilizza comunemente per dire qualcosa ma per alludere ad altro, in modo che ciò che si dice è falso se si allude al senso comune. L’ironia complessa è propria del metodo socratico anzi può essere considerata una invenzione di Socrate, una ironia dove “ciò che viene detto è e non è – allo stesso tempo – ciò che si intende, il suo contenuto superficiale è vero in un senso e falso in un altro. L’ironia complessa allude a qualcosa di molto più profondo delle apparenze) è una fase fondamentale del dialogo socratico ed è la chiave di volta del dialogo socratico stesso: è il momento in cui il Filosofo, facendo evidenziare le pseudo-certezze dei propri interlocutori, giunge a dimostrare il non sapere dei propri interlocutori. Utilizzando l’arma del dubbio e manovrando abilmente la tecnica della confutazione, Socrate giunge a mostrare alla persona che gli sta di fronte l’inconsistenza delle sue persuasioni.
Con questo “irritante gioco”, Socrate distrugge la presunzione di sapere insita nel suo interlocutore e lo sprona, ora, alla vera ricerca del vero. Ecco allora che si compie la fase della maieutica, ovvero “l’arte di far partorire” (del verbo greco μαιευομαι o maieuomai che significa “fare la levatrice, assistere al parto”): Socrate, “ostretico di anime”, aiutava gli intelletti a partorire un genuino punto di vista sulle cose. La verità è dunque una conquista personale e granulare (nessuno ha tutta la verità in tasca!). La vera educazione è sempre auto-educazione: il discepolo, grazie all’opera del maestro, viene aiutato a maturare in autonomia il percorso per la verità, a partire dalle proprie inclinazioni interiori. L’autonomia del discepolo è quindi allenata nel metodo e non tanto nell’esito della verità in se: ogni verità, se necessario, va rimessa in dubbio.
Il “che cos’è” e le “definizioni”
Ma che cosa fa partorire Socrate? La molla dell’intero processo maieutico di Socrate è il “ti estì?” (cioè il “che cos’è”?), ovvero la richiesta di una definizione precisa di ciò che si sta analizzando. Ad esempio, alla domanda “che cos’è la virtù?”, un interlocutore risponde di solito con un elenco di casi virtuosi (virtuoso è chi onora le leggi, virtuoso è chi rispetta i genitori etc.) ma Socrate non si accontenta di ciò: Socrate vuole una definizione della virtù in se stessa (nel Medone di Platone, Socrate afferma che “Anche se le virtù sono molte e diverse, è in tutte un’identica specie ideale per cui sono virtù; è appunto affidandosi in questa specie ideale che uno ha la possibilità, rispondendo a chi lo interroghi, di chiarire bene la questione sul che cosa sia la virtù”[72c]).
Il “che cos’è” è un’arma nelle mani dell’ironia socratica e possiede una duplice natura: una negativa e indirizzata a mettere in crisi l’interlocutore e una positiva volta a ricostruire in maniera più fondata l’argomento trattato, sul quale argomento possa esserci un accordo linguistico e concettuale tra le menti coinvolte. Il che cos’è ha come scopo l’analisi attenta dell’anima.
L’uomo e l’anima secondo Socrate
L’essenza dell’uomo è la sua anima. L’anima è, per Socrate, quella parte di noi che ci fa conoscere, pensare ed agire. Insegnare agli uomini la cura della propria anima è il compito massimo dell’educatore (quindi del filosofo). Per Socrate (e per tutta la tradizione filosofica successiva) i valori veri sono tutti contenuti nella conoscenza. La virtù è conoscenza, anzi, la forma più alta ed elevata di conoscenza: la scienza di ciò che è l’uomo e di ciò che per lui è bene e utile (dei “massimi valori etici”). Per il Filosofo, dunque, la virtù è scienza o conoscenza, mentre il contrario della virtù, cioè il vizio, è privazione di scienza e conoscenza, cioè ignoranza. Nessuno compie volontariamente il male, ma chi lo fa, lo fa per ignoranza del bene. Questa visione della filosofia seconda la quale il bene morale è un fatto di conoscenza si chiama “intellettualismo etico”; nell’intellettualismo etico il male risulta involontario; inoltre il peccato risulta, in questa ottica, un errore di calcolo (in questo caso l’uomo è vittima di ignoranza). Siamo ancora ben lontani dall’etica dell’intenzione che prenderà le mosse dal pensiero di Agostino d’Ippona.
Libertà, piacere, utile e felicità
È veramente “libero” l’uomo che sa dominare i suoi istinti. Per Socrate il piacere è accostabile alla felicità, ma solo nella misura in cui la felicità si raggiunge “calcolando con arte il piacere”, cioè operando una misurazione dosata, adeguata del piacere (l’eccesso del piacere è terribile come la sua mancanza).
Inoltre, bisogna sottolineare come per Socrate l’utile non coincida con il bene: Socrate non parla di ciò che è utile per il corpo ma parla di ciò che è “utile per l’anima”; di più: il parametro dell’utilità non è dato che dalla virtù (“areté” o ἀρετή) dell’anima, cioè dalla scienza e della conoscenza.
In questo percorso, la felicità si configura come un sommo bene proveniente dall’anima e l’anima è felice quando è ben ordinata e virtuosa, quando “è pienamente in se stessa”, quando “realizza il pieno accordo di sé con sé”.
L’accusa di empietà, la teologia Socratica e il daimónion
Riguardo al primo capo d’accusa contro il Filosofo (nel famoso processo raccontato nell’opera “Apologia di Socrate” di Platone), “Socrate” è reo di non credere negli Dei in cui crede la città e di introdurre nuove Divinità”. Una vera e propria accusa di eresia. Ma perché?
Nei confronti del problema di Dio (e della sua esistenza) Socrate ritrova la stessa difficoltà incontrata con il problema dell’anima: come non potendo dire ciò che l’anima è “ontologicamente” egli la definisce in funzione delle sue attività, così si comporta nei confronti di Dio e del divino. Per Socrate, Dio esiste perché se ogni parte del creato ha un fine, necessariamente ne consegue che sia necessaria una intelligenza produttrice che “finalizzi il creato”. Perfino l’intelligenza umana (superiore a quella degli altri esseri) richiama un “finalismo” (il finalismo è una dottrina filosofica, opposta al meccanicismo, secondo cui tutto tende verso un fine ultimo e per cui ogni fenomeno nella sua connessione con gli altri fenomeni si muove verso l’attuazione di determinati fini) di fondo. L’uomo è dunque visto come la più importante opera di Dio (un dio plasmatore, che non crea “ex nihilo”) e come l’essere di cui egli ha più cura.
Sempre per condannare Socrate, infine, lo si accusa di “introdurre nuovi daimónia”. Il “daimónion” (δαίμων; un sostantivo neutro) è quella voce interiore (la voce di Dio) che, secondo Socrate, ci suggerisce tutto ciò che va fuggito per realizzare la propria missione. Il daimónion suggerisce quindi tutto ciò che va evitato e non ciò che bisogna fare.
I rapporti tra teologia ed etica in Socrate, una riflessione complessaIn chiusura, occorre sottolineare uno dei temi più delicati e complessi della dottrina socratica. Il daimónion non intacca l’autonomia della filosofia, così come l’etica socratica si mantiene autonoma anche nei confronti della questione dell’immortalità dell’anima: i valori morali si impongono di per sé, a prescindere dal fatto che l’anima duri o no dopo la morte del corpo. Inoltre, per Socrate, come Dio non interviene nella fondazione dell’etica, così non interviene con premi o castighi né in questo mondo, né nell’aldilà. Ma allora come si può conciliare, da un lato, tutto questo con la concezione socratica della Divinità, che è concepita e interpretata sostanzialmente come intelligenza provvidente? Inoltre, questo ordine di pensieri non contraddice la ferma convinzione socratica che Dio si prenda cura particolare della causa dei buoni e, al limite, giunga addirittura a mandare a lui il segno demoniaco? Ecco la risposta: i valori morali non sono creati e imposti dalla Divinità, però sono e restano comunque i valori supremi, perché sono quelli dello spirito e, come tali, sono riconosciuti anche dalla Divinità. Ecco perché Dio, pur non essendo autore dei valori morali, ne è comunque il protettore.