Martin Heidegger è considerato uno dei più grandi filosofi della storia della filosofia. In questa pagina è proposto un breve riassunto di questo importantissimo autore.
Indice della guida:
Martin Heidegger riassunto
La vita
Martin Heidegger nasce a Messkirch, in Germania, il 26 settembre 1889. Studente brillante, si laurea in filosofia a Friburgo nel 1913 con una tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo, dopo avere seguito corsi di filosofia e teologia. Nel 1915 ottiene la libera docenza grazie a una dissertazione su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Nel 1916 diventa assistente di Husserl fino al 1923, anno in cui ottiene una cattedra a Marburgo, dove insegna fino al 1927, anno della pubblicazione della sua prima opera importante, Essere e Tempo. L’anno successivo viene chiamato a Friburgo per prendere il posto di Husserl, il quale aveva lasciato l’insegnamento. Nel 1933, in seguito alla sua nomina a rettore dell’Università di Friburgo (carica che occupava proprio Husserl, allontanato a causa delle sue origini ebraiche) aderisce al nazismo, ma l’anno successivo rinuncia all’incarico e si chiama fuori da qualsiasi coinvolgimento politico. Heidegger si ritirerà dalla vita pubblica fino alla caduta del regime, ma in seguito alla sua adesione al nazionalsocialismo, gli viene interdetta dagli americani la possibilità dell’insegnamento fino al 1952. A partire dal 1951, aiutato a reintrodursi nel mondo accademico dall’amico Karl Jaspers (che aveva rotto i rapporti con lui al tempo dell’adesione al nazismo), Heidegger ritorna progressivamente ad insegnare, prima tenendo seminari privati, poi corsi di insegnamento ufficiali. Nel 1955 si ritira definitivamente dall’insegnamento per vivere in una baita tra i boschi fino alla sua morte, avvenuta nel 1976.
Controversa è la vicenda della adesione di Heidegger al nazismo: il suo allontanamento dopo solo un anno di frequentazione degli ambienti politici sembra testimoniare una repentina presa di coscienza, la sua decisione di dimettersi dalle cariche fu presa in disaccordo con chi voleva escludere due accademici ostili al regime che erano stati assunti dallo stesso Heidegger sulla base dei soli meriti accademici. Heidegger pare vedesse nel nazismo l’opportunità di inserire nella vita pubblica tedesca forze nuove e vigorose, oggi molti pensano che questa vicenda sia stata una “sbandata” di un uomo poco propenso alla politica, va però ricordato che Heidegger non era del tutto estraneo ad un certo ambiente “conservatore”, soprattutto in gioventù. Da notare, infine che, nel dopoguerra, Heidegger fu disposto anche a perdere la possibilità del suo rientro accademico per favorire la carriera accademica di un suo allievo di origini ebraiche, Karl Löwith, fuggito in Giappone e poi negli Stati Uniti durante il periodo nazista.
Ad ogni modo, Heidegger rappresenta ancora oggi uno dei filosofi più importanti del XX secolo.
L’ontologia fenomenica di Heidegger
La filosofia di Heidegger è volta a capire il significato autentico dell’essere. Lo stesso Heidegger definisce la sua ricerca “ontologica”, una vera e propria ontologia. Ma non una ontologia metafisica bensì una ontologia fenomenica. Da questa ricerca nasce Essere e tempo, opera pubblicata nel 1927, quando il giovane filosofo aveva appena 38 anni.
Mentre l’ontologia metafisica del passato intendeva l’essere come ciò che non muta ed è eterno, per Heidegger l’essere (il quale è stato indagato fenomenologicamente dall’Autore) assume le caratteristiche della realtà ed è quindi soggetto alla temporalità (e al divenire) propria degli enti per come essi si manifestano.
L’esserci come unico indagatore dell’essere
Secondo Heidegger non si può pensare un qualsiasi essere metafisico senza ricondurlo alla condizione propria dell’esserci (esserci, o “dasein” è una parola che coincide con l’esistenza del singolo uomo; dasein è un “essere qui”, un “essere gettato nel mondo qui e ora”; esserci è dunque sinonimo del singolo uomo esistente che in qualche misura e comunque sempre e solo singolarmente, è in rapporto con l’essere).
Ma che cos’è l’uomo (cioè “l’esserci”)? Che cos’è l’esistenza dell’uomo? Per Heidegger, esistere significa ex-sistere (letteralmente “andare al di fuori”), cioè andare oltre il permanere della realtà, verso una possibilità aperta, verso una progettazione, verso la novità degli accadimenti che permettono all’esistenza di mutare nel corso del tempo. Esistere è divenire. L’esserci è, dunque, il mutamento (a differenza di Heidegger, l’essere immutabile della metafisica classica è un in-sistere, cioè un rimanere nella propria condizione, senza mutamento).
Per capire che cos’è l’essere, non bisogna partire dalla sua “presenza trascendentale” (cioè postulare la sua esistenza come immutabile e già data al pensiero), ma occorre indagare in che condizioni sia l’esserci (l’essere umano), cioè l’esistenza stessa degli uomini, la “mia stessa esistenza” (chi è l’unico ente che può indagare l’essere? L’esserci! Che cosa cerca l’esserci? L’essere! Che cosa trova l’esserci indagando l’essere? Il senso dell’essere).
L’uomo non vive come un sasso, un gatto o come una pianta: il sasso, il gatto e la pianta sono già compiuti in sé, essi sono semplice “presenza”. L’esserci, al contrario, trascende in continuazione, supera sempre se stesso, è continuamente proteso verso ciò che egli non è ma che potrebbe essere. È lo slancio in avanti tipico dell’uomo e dell’uomo soltanto che rende possibile all’uomo non solo una semplice “presenza”, ma anche “un’esistenza”, sottoposta alla storia e al tempo (cioè al divenire).
Dunque, il senso autentico dell’essere è il senso stesso dell’esserci (capovolgimento totale della metafisica classica), poiché solo l’uomo può interrogarsi sul senso dell’essere e poiché l’essere non può essere posto come qualcosa di indipendente dall’esistenza dell’uomo, poiché questa sarebbe una forzatura (anzi, un errore), l’essere, se autentico, coincide con il significato dell’esistenza umana. Quindi l’essere è tempo, perché ha le stesse caratteristiche dell’esistenza stessa degli uomini, l’essere è: mutabile, temporale, soggetto al divenire, è il lasciarsi mostrare degli enti e degli avvenimenti.
Esistenza autentica ed inautentica
L’essere umano si trova a vivere, dunque, in una esistenza in relazione con il senso dell’essere. Tale esistenza può essere sia autentica che inautentica.
L’esistenza autentica è quella esistenza in cui l’uomo sceglie di vivere coscientemente il suo carattere di ente che progetta ed è proiettato nel futuro, un ente che in continuazione “esce da sé”. Chi vive una esistenza autentica accetta il suo carattere “diveniente” e in questo divenire accetta anche la possibilità della nullificazione (nullificazione della morte, la quale termina l’attività di progettazione).
L’esistenza inautentica è quella condotta dall’uomo che rifiuta il proprio stesso progettare, nega l’apertura e rinuncia al futuro e a qualsiasi progetto, rifugiandosi nei “rimedi metafisici” che hanno lo scopo di renderlo immortale. Questo atteggiamento è chiamato da Heidegger deiezione, ovvero il “diventare una cosa come le altre, un ente tra gli enti”. L’uomo vive inautenticamente dimenticandosi della propria condizione esistenziale di essere mortale e soggetto al divenire, vivendo però in questo modo come un oggetto che si crede immortale. L’esistenza inautentica si perde nella “chiacchiera”, nel “si dice” o nel “si fa così”, ovvero nell’accettazione distratta di un’esistenza già vissuta da altri e quindi già creata, senza alcuna possibilità di creare nulla come novità sostanziale (tali tematiche sono esistenziali, ma Heidegger stesso nella Lettera sull’umanismo, dichiarerà che la sua ricerca è ontologica e non esistenzialista).
Angoscia ed essere per la morte
Heidegger ammette che con la morte giunge l’annullamento dell’esserci. Dunque la morte è la possibilità delle possibilità perché è la possibilità estrema, oltre la quale nulla è più possibile. In questo senso l’esserci si configura come un essere-per-la-morte. L’Autore afferma inoltre che la nostra vita può svolgersi entro un orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate alla nostra finitezza. Se le nostre scelte fossero svolte in una ottica di vita eterna, essere perderebbero di significato, perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta potrebbero ripetersi all’infinito. Ogni strada potrebbe essere battuta, superando quel “principio di esclusione” (per approfondire, vedi Kierkegaard e l’angoscia) che ogni singola scelta della vita ci pone di fronte e svuotando completamente il senso della vita umana singolare. Heidegger pone quindi la vita-per-la-morte come un concetto positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di produrre quel significato e quell’attenzione per le cose del mondo che non potremmo avere se, perduti nell’eternità, avessimo la (erronea) consapevolezza di poterne godere in eterno. L’angoscia in Heidegger è pertanto uno “stato emotivo” legato all’esistenza autentica ed è un “sentimento positivo” (chi vive nell’esistenza inautentica tende a dimenticare la morte e ad allontanare l’angoscia; confrontare qui il tema del “divertissement” di Pascal oppure il tema della “alienazione” in Feuerbach).
La differenza ontologica tra essere ed ente
L’ente è ciò “che è”. Ogni cosa che è, in quanto è, è chiamata ente.
L’essere è ciò che “fa essere” l’ente, l’essere è quell’elemento, quella non-cosa grazie alla quale gli enti sono (o, heideggerianamente, “si mostrano”).
Dunque, se l’essere è il lasciarsi mostrare degli enti, allora significa che l’essere non coincide con gli enti. Questa è la cosiddetta differenza ontologica (tra ente ed essere).
I singoli enti (cioè le cose che esistono) non hanno legame diretto con l’essere; l’essere non è l’esistere delle cose (degli enti), l’essere è in realtà l’orizzonte entro il quale gli enti si manifestano.
L’essere non è quindi una essenza dell’ente, ma è in realtà il processo di manifestazione degli enti. L’essere non produce gli enti, ma è solamente ciò che lascia vedere gli enti, è un orizzonte entro il quale gli enti sono per così dire “illuminati” e vengono dunque percepiti.
Nell’ontologia di Heidegger l’evidenza del mutamento è talmente palese che occorre necessariamente affermare il divenire di ogni cosa, anche di quell’essere che era stato sempre inteso (a partire dal mondo greco) come ciò che vi è di immutabile nel mutamento.
Ma allora perché l’indagine dell’essere a partire dall’esserci (cioè dall’uomo) è rischiosa (o addirittura insufficiente)? Perché ogni esserci ha per sua stessa natura un “residuo ontico” di indagine, cioè rimane legato ad un ente (a se stesso come ente che indaga; ognuno può indagare solo per se e da se) e come tale l’ente rischia di nascondere la cosiddetta differenza che c’è tra ente ed essere (cioè la già citata “differenza ontologica”). La differenza ontologica è dunque quella differenza che sorge confrontando l’ente con l’Essere.
Negli enti si distingue il loro essere-cose dall’essere inesprimibile (ineffabile, che non può essere espresso a parole, che non può essere adeguatamente espresso) e quindi non catalogabile (è come se qualcosa d’altro fosse “nascosto” dall’ente), cioè l’essere che manifestandosi nelle cose le rende tali, le fa “affiorare alla presenza”.
Tecnica, essere senza fondamento, verità
La “civiltà della tecnica” che domina il mondo contemporaneo (per approfondire vedi, La questione della tecnica di Heidegger) è, per Heidegger, una gigantesca estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi è un soggetto (l’uomo) che intende dominare (con la sua volontà di potenza; vedi Nietzsche e la volontà di potenza) degli oggetti (i quali sono altro da sé).
L’essere degli enti viene allora ad identificarsi semplicemente (e riduttivamente) con il ruolo e con la funzione che vengono loro assegnati all’interno del sistema della tecnica (al posto dell’impotenza e della finitezza dell’essere umano, oppure al posto della manifestazione del senso dell’essere, compaiono tutte le forme di assicurazione, controllo e organizzazione dell’ente proprio di una esistenza tecnico scientifica).
È infatti impossibile, secondo Heidegger, sapere il modo in cui, all’interno dell’orizzonte (dell’essere) che lascia manifestare gli enti, questi enti si producano e a quale legge si conformino. L’essere è quindi senza fondamento.
La tecnica moderna, invece, si configura come un dominio dell’uomo sulle cose, l’uomo crede che l’essere delle cose sia soggetto al suo dominio, in realtà l’uomo non è il padrone dell’essere, bensì il “pastore dell’essere”, cioè il custode della dimensione nella quale gli enti si manifestano.
L’essere, dunque, sopravvive al tentativo di dominio della tecnica perché non è un ente concreto, ma è solamente la condizione attraverso la quale gli enti si manifestano (e la tecnica può solo occuparsi degli enti, quindi non dell’essere).
Ben si capisce ora perché la verità nella visione heideggeriana coincide quindi con l’essere stesso, cioè con quella non-cosa che permette agli enti di manifestarsi e di rendersi visibili e concreti (oggettuali) alla percezione degli uomini e all’orizzonte del mondo. Tuttavia, questo “senso della verità” si è spento con l’avvento della metafisica, in cui l’essere ha acquistato (come già affermato) le caratteristiche dell’ente immutabile. L’essere lo si può pensare come “luce” poiché la luce illumina gli oggetti “senza esser vista”.