Arthur Schopenhauer è uno dei più grandi filosofi della storia della filosofia. Viene riconosciuto come il padre del pessimismo.
Indice della guida:
Arthur Schopenhauer riassunto
Arthur Schopenhauer, la vita
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da Heinrich Floris Schopenhauer, un ricco mercante conosciuto e apprezzato in tutto la regione e da Johanna Henriette Trosiener, una letterata con la passione per l’arte (Johanna sposa Floris a 18 anni). Dopo una prima parte della carriera passata nell’attività mercantile, ai servizi del padre, il giovane Arthur, pur avendo una grandissima passione per gli studi umanistici, inizia nel 1805 il tirocinio commerciale presso la ditta Jenisch di Amburgo. Il 20 aprile dello stesso anno, il padre muore per un grave incidente: il suo corpo viene trovato in un canale della città di Amburgo. Alcuni critici avanzano l’idea di un suicidio, forse per una crisi depressiva causata dalla paura per le proprie finanze, ma più probabilmente a causa dell’insofferenza causata dalla moglie (la quale non lo amava), cosa che il Filosofo, anche in futuro, non le perdonerà mai.
La vita del giovane Schopenhauer, che ha viaggiato in tutta Europa per formarsi nel mondo dell’economia (ed ha imparato il francese, l’inglese e il latino in questi viaggi), subisce così una svolta ed iniziano a degenerare i rapporti con la madre fino a quando, nel 1807, Arthur si trova a non sapere cosa dover fare: perseguire la promessa fatta al padre di proseguire l’attività da commerciante oppure intraprendere gli studi classici. Consigliato da Carl Ludwig Fernow, Arthur si reca a Gotha e diviene allievo dell’umanista Friedrich Jacos e del latinista Friedrich Doering. Viene cacciato dopo pochi mesi per via del suo carattere “forte”.
Dal 1808 si reca a Weimar (dove si trovava anche la madre) per studiare il greco ed inizia a studiare la cultura italiana (soprattutto Petrarca) e dal 1809 al 1811 studia all’università di medicina di Gottinga, appassionandosi alla metafisica. Da qui inizia il suo grande amore per la filosofia (ha come maestro lo scettico Schulze). Nel 1811 seguirà a Berlino anche le lezioni di Fichte (con un certo disappunto) e nel 1813, in seguito alle guerre napoleoniche, dovrà tornare nuovamente a Weimar, laureandosi “in absentia” in filosofia. Continuano gli studi, anche scientifici, e continua la frequentazione di alcuni grandissimi personaggi come l’anziano poeta tedesco Goethe o il poeta inglese Byron. Nel contempo, dal 1813-1814 circa, inizia ad approfondire la cultura orientale e legge le Upaniṣad (una raccolta di testi religiosi e filosofici indiani).
A dicembre del 1818 pubblica la prima edizione di “Il mondo come volontà e rappresentazione”; quest’opera sarà, inizialmente, un insuccesso e moltissime copie della stessa andranno addirittura al macero.
Nel 1820 è libero docente all’Università di Berlino. Fissa volontariamente gli orari delle sue lezioni nella stessa fascia temporale di quelle di Hegel (odiato da Schophenhauer e a quel tempo considerato da moltissimi il più grande filosofo vivente). Nel 1821 incontra Caroline Richter, con la quale avrà una relazione fino al 1826. Dal 1833 si trasferisce definitivamente a Francoforte sul Meno. Nel 1839 viene premiato dalla Società norvegese per un saggio “Sulla libertà del volere umano”; è il primo riconoscimento ufficiale per Schopenhauer. Dopo gli accadimenti del 1848, conseguentemente ai moti rivoluzionari e alla condizione sociale e culturale mutata in tutta Europa, Schopenhauer inizierà ad avere successo. Nel 1851 esce “Parerga e paralipomena”, la prima opera del Filosofo che riscuoterà un successo internazionale. All’incirca nel 1858, Schopenhauer scopre Giacomo Leopardi (1798-1837; Arthur ne leggerà le “Operette morali” e i “Pensieri”). Negli ultimi anni della sua vita, Schopenhauer, soddisfatto del tardivo successo della sua opera filosofica, ammorbidisce la tua notoria misantropia (e la sua misoginia). Muore di pleurite acuta nel 1860, a Francoforte sul Meno.
La sua opera maggiore, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), influenza in modo significativo il pensiero di Nietzsche e di Freud ed è ritenuta una delle opere più importanti del romanticismo antidealistico.
La reazione all’idealismo
La filosofia hegeliana, per la sua pretesa di spiegare e giustificare razionalmente tutti gli aspetti del reale e dell’esistente, considerandoli come momenti necessari dello sviluppo dello spirito (della realtà), si pone come un sistema razionalistico e ottimistico, che nella filosofia dell’800 suscita varie reazioni polemiche. In particolare, Arthur Schopenhauer, critica duramente la filosofia hegeliana, accusandola di eccessiva astrattezza (chiamerà Hegel “cialtrone”) e distacco dal mondo reale e concreto dell’individuo e della natura: Schopenhauer la respinge per affermare una visione irrazionalistica e pessimistica della realtà.
Schopenhauer, opponendosi all’idealismo, nega l’identità tra realtà e razionalità, e sostiene che la realtà è un continuo processo irrazionale, privo di meta finale. Il Filosofo afferma che la filosofia debba avere come punto di partenza l’esperienza; inoltre, Egli accusa l’idealismo di non aver compreso l’importanza della distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, tra apparenza e realtà, e di essere passato dalla inconoscibilità del noumeno alla sua radicale eliminazione, al fine di “spiritualizzare” tutta la realtà.
Il mondo come rappresentazione
Partendo dalla distinzione di Kant (anche se la filosofia di Schopenhauer è più “orientalistico-metafisica” rispetto a quella di Kant che è più “gnoseologico-scientifica”) tra fenomeno e noumeno, Schopenhauer assegna al fenomeno il significato di rappresentazione e al noumeno il significato di volontà. Per Schopenhauer il fenomeno è una rappresentazione soggettiva che esiste solo dentro la mia coscienza.
La RAPPRESENTAZIONE ha due aspetti essenziali e inseparabili: da una parte c’è il soggetto rappresentante, dall’altra c’è l’oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto esistono soltanto come “facce” della stessa medaglia, entrambi sono “una facciata” della rappresentazione.
Così, per Schopenhauer, se il materialismo è falso, perché nega il soggetto riducendolo all’oggetto o alla materia, l’idealismo è errato perché nega l’oggetto riducendolo al soggetto.
Per Schopenhauer, inoltre, nel soggetto ci sono solo 3 forme a priori della conoscenza: tempo, spazio e la categoria della causalità (accorperà in questa unica categoria le 12 categorie kantiane).
Lo spazio e il tempo sono, come già visto in Kant, delle forme a priori della rappresentazione: ogni nostra sensazione e/o percezione è spazializzata e temporalizzata.
Su queste sensazioni e percezioni, l’intelletto applica la categoria della causalità: è solamente tramite la categoria della causalità che gli oggetti nella realtà si “risolvono” nella loro azione causale su altri oggetti. Dire “materia” significa semplicemente dire, per Schopenhauer, “rapporto causa-effetto”. Il rapporto di causa-effetto tra gli oggetti è l’intera realtà dell’oggetto. La realtà della materia si esaurisce nella sua causalità, nell’azione di causa-effetto.
In tutto questo grande mondo, la causalità della realtà è regolata dal principio di ragion sufficiente. Il principio di ragion sufficiente è il principio secondo il quale si può dare una singola ragione che da sola sia sufficiente a spiegare una realtà di fatto. Ad esempio, di fronte alla realtà di fatto di una nevicata sono in grado di spiegarla a priori, senza ricorrere a sperimentazioni, in base alla stagionalità (ragion sufficiente: quando è inverno nevica) anche se ad aver determinato la nevicata non sono quelle le sole cause (e anche se, in buona parte, ignoro altre cause).
La causalità (e il principio di ragion sufficiente ce lo conferma) si manifesta nelle sue quattro radici che regolano: il divenire, come causalità fisica nelle cose naturali; il conoscere, come nesso logico tra premessa e conclusioni; l’essere, come concatenazione degli enti matematici; l’agire, come rapporto tra azione e motivazione.
Ora, se noi fossimo solamente conoscenza e rappresentazione, non potremmo uscire da mondo fenomenico, ossia dalla “rappresentazione puramente esteriore” di noi e delle cose. Ma poiché siamo dati a noi stessi non solo come rappresentazione, ma anche come corpo, non ci limitiamo “a vederci dal di fuori”, bensì “ci viviamo” anche dal di dentro, godendo e soffrendo.
Proprio questa esperienza in prima persona permette di squarciare il velo di Maya. Infatti, “vivendoci in noi stessi” (fino alle profondità dell’io!) ci rendiamo conto che l’essenza profonda del nostro io (o meglio “la cosa in sé del nostro essere globalmente considerato”) è la volontà di vivere (Wille zum Leben), cioè un impulso prepotente e inarrestabile che ci spinge ad esistere e ad agire.
Più che intelletto o conoscenza, noi siamo vita e volontà di vivere, il nostro corpo non è che la manifestazione esteriore delle nostre bramosie più recondite.
Il mondo come volontà
Affermare che l’essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a dire, secondo Schopenhauer, che la vita è dolore per essenza. La volontà (inconscia, unica, eterna, incausata e senza scopo) si manifesta in tutti gli esseri come una sorta di “volontà cosmica” possente e irrazionale, che alimenta ogni forma di vita, ma anche il conflitto e la sofferenza. Come espressione della natura e delle specie che nella natura si esprimono, la volontà è in perenne conflitto con le esigenze degli individui, e in questa lotta, in cui la soggettività della specie contrasta la soggettività individuale, a esser sacrificato è sempre l’individuo, mero strumento ed espressione della volontà di vita della natura (vedi, contrapposizione Individuo-Specie). Il desiderio del singolo è in realtà il DOLORE e il piacere è solo una funzione derivata del dolore (il piacere riesce a vincere il dolore solo annullando se stesso; esempio del mangiare e dei crampi allo stomaco).
Ne consegue che Dio, nell’universo di Schopenhauer, non esiste. Da qui la critica alle varie forme di ottimismo:
- Il rifiuto dell’ottimismo cosmico: la vita è in realtà una esplosione di forze irrazionali.
- Il rifiuto dell’ottimismo sociale: gli uomini vivono insieme per bisogno, l’uomo è maligno ed egoista per natura.
- Il rifiuto dell’ottimismo storico: polemica contro ogni forma di storicismo, la storia non è una scienza ma è una mera catalogazione del fatto individuale, il destino dell’uomo ha sempre tratti immutabili.
Solo l’uomo può comprendere l’assurdità e la tragicità della vera essenza dell’universo, vivendo in perenne oscillazione fra il dolore, prodotto da una tensione infinita verso un’impossibile liberazione da questa condizione, e la noia, derivante da qualche appagamento effimero. Da qui deriva una concezione radicalmente pessimista sul senso e il destino dell’uomo, individualmente, socialmente e storicamente considerato.
Le vie di liberazione dalla volontà
Facendo proprie le sentenze pessimistiche dei saggi d’Oriente (“esistere è soffrire”), di Platone (“è meglio non essere nati piuttosto che vivere”), Lucrezio (“che male sarebbe stato per noi non essere nati?”) di Calderón de la Barca (“il delitto maggiore per l’uomo è di essere nato”), nonché di certa tradizione biblico-cristiana (“non c’è nulla di nuovo sotto il sole”, “tutto è vanità”, “la vita è una valle di lacrime”), Schopenhauer afferma che “l’esistenza si impara poco per volta a non volerla”. Tuttavia, egli rifiuta completamente il suicidio (per 2 motivi: 1) il suicidio è un atto di forte affermazione della volontà 2) il suicidio sopprime soltanto una manifestazione fenomenica della volontà di vivere, e lascia intatta la cosa in sé, la quale, muore in un individuo ma immediatamente rinasce in mille altri).
Schopenhauer propone quindi 3 vie di liberazione dalla volontà (di vivere), cioè tre strade che sottraggono l’uomo all’illusione del principio di individuazione (Principio di individuazione: è ciò che determina l’individualità di un ente e lo rende distinto da ogni altro ente, anche appartenente a una natura comune = ogni ente è diverso e unico) che domina il mondo della rappresentazione. Non è vero! L’unicità è una illusione (confronta Nietzsche, Lo scriba del caos).
Ci sono tre strade per arrivare dalla voluntas alla noluntas:
Una via è l’arte, in cui la coscienza, liberatasi da ogni volontà e da ogni interesse, si fa assoluta (solo) nel suo atto contemplativo. Ma la contemplazione di un’opera d’arte “si esaurisce” in fretta, in pochi istanti ci ritroviamo punto a capo. Un’altra via è la moralità (o l’etica della pietà), e specialmente la compassione universale, in cui gli interessi individuali vengono annullati nella consapevolezza del comune patire. Ma l’etica della pietà, sebbene implichi una vittoria sull’egoismo, rimane pur sempre all’interno della vita e presuppone un qualche attaccamento a essa. Ecco allora la terza via che è l’ascesi, la quale si sottrae alla catena infinita del bisogno – soddisfazione e risorgenza del bisogno – e può così congedarsi dalla volontà desiderante per esprimersi in quella noluntas (nolontà) che è anzitutto rinuncia alla propria individualità e alle sue esigenze. Un annullamento totale del proprio io, il raggiungimento del nirvana, la negazione del mondo stesso (vedi, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 71) In questo modo ci si libera dal dolore metafisico iscritto nella volontà di vita, sulla quale si basa l’affermazione della specie e la quale inganna gli individui, i quali individui, al di là di come si rappresentano il mondo, sono meri strumenti della “vuota vitalità”.